LA CORTE DI APPELLO

    Ha emesso la seguente ordinanza.
    Zamfir  Nicusor  Adrian veniva tratto in arresto il 6 aprile 2005
ai  sensi  dell'art. 14  comma  5-ter  d.lgs. n. 286/1998, cosi' come
modificato dalla legge 12 novembre 2004, n. 271, perche', espulso con
decreto  prefettizio  e  con  l'intimazione  del questore di lasciare
l'Italia  entro  il  termine  di  5  giorni, si era trattenuto «senza
motivo»  nel territorio nazionale; processato col rito abbreviato dal
Tribunale  monocratico di Verona, era stato riconosciuto responsabile
del  delitto  ascrittogli  e  condannato  alla  pena  di  mesi  8  di
reclusione,  senza  benefici; avverso tale decisione, la difesa aveva
proposto  rituale impugnazione, ottenendo, nelle more del giudizio di
secondo grado, la scarcerazione del prevenuto, incensurato e privo di
precedenti  di  polizia  (v.  ordinanza  26 agosto  2005  della Corte
d'appello  di  Venezia);  la  celebrazione  del  processo  veniva poi
fissata per l'udienza odierna.
    La Corte osserva preliminarmente che il delitto in esame prevede,
per  lo straniero che si rende inadempiente all'ordine di espulsione,
la pena della reclusione da 1 a 4 anni, laddove in precedenza, per la
stessa  violazione,  era stabilita quella dell'arresto da sei mesi ad
un  anno,  con  la  conseguenza  che  il  massimo  della  pena  della
precedente   ipotesi  contravvenzionale  corrisponde  ora  al  minimo
edittale  del  nuovo  delitto; ritiene pertanto che tale macroscopico
inasprimento    della   sanzione   contrasti   con   i   criteri   di
proporzionalita'  e  ragionevolezza,  con il principio di uguaglianza
(art. 3,  comma  1,  Cost.)  e  con  il  fine  rieducativo della pena
(art. 27, comma 3, Cost.), principi cardine del nostro ordinamento e,
di  conseguenza,  solleva,  di  ufficio,  eccezione  di  legittimita'
costitituzionale della norma in esame sotto questo duplice profilo.
    Secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, infatti, il
principio  di  cui  all'art. 3, comma 1, Cost. «esige che la pena sia
proporzionata  al  disvalore del fatto illecito commesso, in modo che
il  sistema  sanzionatorio  adempia  nel contempo alla funzione della
difesa  sociale  ed  a  quello di tutela delle posizioni individuali»
(sentenza   n. 409/1989);   e  proprio  rilevando  un  «bilanciamento
irragionevole»  tra  il  bene  tutelato  dalla  norma  e quello della
liberta'   personale   del  soggetto  agente,  la  Corte  ha  infatti
dichiarato  «illegittimo», perche' sproporzionato, il minimo edittale
previsto  dall'art. 341  c.p.  in  materia  di  oltraggio  a pubblico
ufficiale (sentenza n. 341/1994).
    La   stessa  Corte  ha  inoltre  affermato  che  la  mancanza  di
proporzionalita' rispetto ai fatti reato vanifica il fine rieducativo
della   pena   sancito   dall'art. 27,   comma   3,   c.p.  (sentenza
n. 343/1993),  poiche' e' necessario che il destinatario della stessa
si  renda  conto  del  torto  commesso e ritenga «giusta» la sanzione
stabilita  dalla  legge;  principio  questo  che  e'  ormai  divenuto
patrimonio comune della cultura giuridica europea, ora recepito anche
formalmente  da  quella  Costituzione  (art. II - 109, u.p.: «le pene
inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato»).
    Orbene,  il  legislatore  del 2002 aveva compiuto, al tempo della
legge   n. 189/2002,  una  propria,  discrezionale,  valutazione  del
fenomeno  della immigrazione clandestina, ritenendo che, per svolgere
un'efficace  attivita' di contrasto, il bilanciamento degli interessi
in gioco, esigenze di ordine pubblico da un lato, diritti di liberta'
personale,   dall'altro,   trovava   il   suo   punto  di  equilibrio
introducendo  una  fattispecie  contravvenzionale,  che  puniva,  con
l'arresto da sei mesi ad un anno, lo straniero irregolare che violava
l'ordine di allontanamento emesso dal questore nei suoi confronti (v.
art. 13, comma 5-ter, legge n. 189/2002).
    Dopo soli due anni, il legislatore e' intervenuto nuovamente, con
un emendamento approvato in sede di conversione del d.l. 14 settembre
2004,   ed   ha   trasformato   la  contravvenzione  in  un  delitto,
raddoppiando  il  minimo  edittale  della  pena e quadruplicandone il
massimo:  ma  ne'  l'autore  dell'emendamento,  ne' il relatore della
legge  hanno  fatto  riferimento ad un eventuale, vistoso, incremento
del  fenomeno  dell'immigrazione clandestina, unico fatto, questo, in
grado  di  fornire  una giustificazione razionale al provvedimento in
tal  modo varato (secondo dati elaborati dalla Commissione europea il
numero   delle  effettive  espulsioni  di  cittadini  extracomunitari
dall'Italia  nei due anni considerati sarebbe addirittura in costante
diminuzione:  25226  nel  2002, 19.729 nel 2003, 17.200 nel 2004); di
contro,   proprio   l'esame  dei  lavori  delle  Camere  consente  di
individuare  la  «ragione»  unica dell'emendamento, esplicitata dallo
stesso relatore della legge, che ha spiegato come questo inasprimento
di  pena si fosse reso necessario per poter continuare ad arrestare e
mantenere  in  carcere  il  disobbediente  dopo che «la mannaia della
Corte   costituzionale»   aveva,   il   20 luglio   2004,  dichiarato
illegittima  la  precedente  normativa  elaborata  sul punto (v. A.C.
5369, discussione del 2 novembre 2004).
    In   tal   modo   il   legislatore   non   solo   ha   introdotto
nell'ordinamento  una  pena  sproporzionata  ed  incongrua rispetto a
quella  prevista per quello stesso fenomeno solamente due anni prima,
violando  gli  artt. 3 e 27 Cost., ma ha inserito nell'ordinamento un
ulteriore  elemento  di  irragionevolezza, piegando il diritto penale
sostanziale  alle esigenze di quello processuale e ponendo entrambi a
sostegno dell'attivita' di polizia, con un'inversione dei piani e dei
ruoli istituzionali di tutta evidenza.
    Ma  il  principio  di  cui  all'art. 3 Cost. appare violato anche
sotto  un  diverso,  ma  altrettanto  significativo  profilo,  quello
dell'irragionevole  trattamento  differenziato  che viene in tal modo
predisposto per la disciplina di casi sostanzialmente analoghi.
    Il  comportamento  di  chi  non  osserva l'ordine impartito dalla
pubblica  autorita',  nella tradizione giuridica del nostro Paese, e'
stato  a  volte  sanzionato solo in via amministrativa (la violazione
delle ordinanze sindacali: art. 106 comma 2 R.D. n. 383/1934, dopo la
depenalizzazione  di  cui  alla legge n. 706/1975), a volte invece in
sede  penale  (in  materia  appunto  di  pubblica sicurezza: art. 163
TULPS);  ma,  in  questo caso, sin dai tempi del codice Rocco, questo
reato    e'    sempre    stato    configurato    quale    fattispecie
contravvenzionale,  come  prevede  appunto  la  principale  norma  di
riferimento in materia, l'art. 650 c.p., che consente di punire anche
con   la  sola  ammenda  «chiunque»  non  osservi  «un  provvedimento
legalmente  dato dalla pubblica autorita' per ragioni... di sicurezza
pubblica  o d'ordine pubblico...»; ed e' significativo che persino il
legislatore   del   1938,   per   sanzionare   gli   stranieri  ebrei
«inottemperanti»   all'ordine   di   lasciare   il   Paese   dopo  la
promulgazione  delle  leggi  razziali,  non  si  fosse allontanato da
questa  tradizione,  limitandosi  a  prevedere  una  nuova ipotesi di
contravvenzione, sempre punita con la pena alternativa dell'arresto o
dell'ammenda  (v.  art.  24,  comma  2,  r.  d.l.  17  novembre 1938,
n. 1728).
    In  entrambi  i  casi,  quello  disciplinato dall'art. 650 c.p. e
quello previsto dalla norma che qui si censura, ci si trova di fronte
a  «reati  di  inottemperanza», posti entrambi a tutela di un comando
emanato  da  un'autorita'  amministrativa e caratterizzati percio' da
rilevanti  analogie  strutturali per quanto riguarda il comportamento
sanzionato e il bene protetto.
    Proprio  per  questo, la drastica divaricazione nella quantita' e
nella  qualita'  delle  sanzioni  oggi  previste tra i due reati, non
razionalmente   fondata,   appare   volutamente  discriminatoria  nei
confronti dello straniero irregolare, che, se riconosciuto colpevole,
verrebbe ad essere sanzionato con una pena che gia' nel limite minimo
di   un   anno  appare  sproporzionata  rispetto  a  quello  previsto
dall'art. 650 c.p., che lo prevede in 5 giorni di arresto o in 2 euro
di ammenda.
    Ancora   piu'  incongrua,  se  possibile,  appare  la  disciplina
irtrodotta  dalla  norma  in  esame  se  comparata con il trattamento
previsto  dagli  artt.  2,  legge n. 1423/1956 e 163 TULPS per coloro
che,   muniti   di  foglio  di  via  obbligatorio,  abbiano  ricevuto
l'intimazione  di  raggiungere il luogo di residenza e non vi abbiano
ottemperato  nel termine previsto. Identica e', nelle due ipotesi, la
struttura  del reato (ordine del questore, obbligo di allontanamento,
inottemperanza),  ma  in  questo  secondo  caso il provvedimento puo'
colpire solo persone risultate «pericolose per la sicurezza pubblica»
(art. 2,  legge  cit.), mentre l'art. 14 cit. non richiede un analogo
accertamento per lo straniero che si vuole allontanare.
    Malgrado  questo,  il residente «pericoloso», se inadempiente, e'
punibile  con  una  pena  da  1  a  sei  mesi di arresto per il reato
contravvenzionale,  mentre lo straniero «non pericoloso» e' punibile,
come  visto, con la ben maggiore pena da 1 a 4 anni di reclusione per
il medesimo comportamento, ora definito delittuoso.
    Anche  sotto  questo ulteriore profilo, dunque, la norma in esame
appare in contrasto con gli artt. 3, comma 1, e 27, comma 3, Cost.
    Si  solleva  pertanto,  con  riferimento  a  detti  articoli,  la
questione  di  legittimita' costituzionale dell'art. 14, comma 5-ter,
prima   parte,   d.lgs.   25 luglio  1998,  n. 286,  come  sostituito
dall'art. 1,   comma  5-bis,  legge  12 novembre  2004,  perche'  non
manifestamente infondata e perche' rilevante nel caso di specie, dato
che la nuova qualificazione del reato ed il drastico ed irragionevole
aumento  della  sanzione ivi prevista avranno diretta incidenza sulla
posizione   processuale   del  prevenuto,  nel  caso  la  sua  penale
responsabilita',  affermata  in  primo grado, dovesse essere anche in
questa sede riconosciuta.